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Scenario italiano, nel mondo, sotto la finanza

Il sempre trascurato contesto internazionale. Oligarchie finanziarie contro democrazia del lavoro [di G. Colonna]

Scenario italiano, nel mondo, sotto la finanza
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31 Dicembre 2013 - 01.38


ATF

di
G. Colonna
.

Parte
prima: il contesto internazionale

Per
indicare brevemente le prospettive per l”Italia nei prossimi anni,
dobbiamo partire da quanto accade a livello mondiale.

Il
principale processo storico che sta segnando il nuovo secolo è
rappresentato dallo spostamento del baricentro delle grandi politiche
di potenza dall”Atlantico al Pacifico. Si tratta di un passaggio
significativo, perché modifica il quadro cui siamo abituati in
Europa da oltre due secoli, la prospettiva alla quale ci ha
assuefatto il XX secolo: nonostante il declino dell”Europa come sede
delle grandi potenze mondiali, infatti, l”asse anglo-americano sul
nord Atlantico, consolidatosi in due conflitti planetari, aveva fatto
finora di quest”area il centro strategico del mondo.

Ma la
crescente polarizzazione fra Cina e Stati Uniti d”America nel
Pacifico non è in realtà cosa nuova per la storia americana, a
differenza nostra: è ben noto infatti che sia stato proprio il
Pacifico la prima arena mondiale in cui l”imperialismo americano si
estrinsecò, verso la fine del XIX secolo; così come è risaputo che
il presidente americano Franklin D. Roosevelt, il grande artefice
della vittoria statunitense nella seconda guerra mondiale, vedeva
nella Cina il partner ideale della riorganizzazione dell”ordine
mondiale post-bellico, dentro e fuori il contesto delle Nazioni
Unite.

Il
fatto che oggi la nuova, crescente proiezione internazionale di una
Cina, statalista ma aperta all”economia del capitalismo mondiale, che
punta chiaramente a diventare potenza navale oltreché commerciale in
Estremo Oriente, ma anche in direzione dell”Africa e del Medio
Oriente, impegnerà direttamente gli Stati Uniti nell”Oceano Pacifico
e, in prospettiva di qualche decennio, li obbligherà ad una scelta
fondamentale – Cina o ancora Giappone, come alleati strategici in
quell”area? Una scelta che, a propria volta, non potrà non avere
conseguenze a più largo raggio: per esempio nei confronti
dell”India, da sempre in posizione di contenimento della potenza
cinese, o della stessa Russia, trovatasi spesso ai ferri corti con
ogni potenza che avesse disegni egemonici in Asia.

Questa nuova
gravitazione della politica mondiale produce già effetti
significativi anche in un”area di più immediato interesse italiano,
quella del Vicino e del Medio Oriente. Se infatti il valore
strategico per l”Italia e per l”Europa per questa parte davvero
centrale del mondo è stato soprattutto legato a fattori ormai ovvi,
quali le politiche energetiche e le relazioni con il mondo
arabo-islamico – oggi essa diviene anche propaggine occidentale delle
possibili tensioni in Estremo Oriente. Lo dimostra, ad esempio, il
ruolo, pragmatico e di crescente influenza, della Cina in situazioni
delicate per gli Usa, come nella questione iraniana e in quella,
assai meno approfondita in Occidente, del Pakistan.

Simili cambiamenti
di prospettiva non valgono, comunque, solo per l”area del Medio
Oriente “allargato”, giacché la situazione dell”intero
continente africano già ne risente e ne risentirà sempre di più,
data la crescente importanza della presenza, economica, militare e
politica della Cina in Africa. Un continente che vedrà per certo
crescere la sua importanza nei decenni a venire, vuoi per la presenza
di materie prime di tipo strategico (vale a dire determinanti per
scarsità e per utilizzo in ambiti essenziali come le
telecomunicazioni e la tecnologia militare, ad esempio), vuoi come
gigantesca riserva naturale di terre coltivabili, un aspetto questo
che riveste per la Cina un”importanza forse determinante.

Comprendiamo
meglio, alla luce di queste brevissime osservazioni, che il ruolo del
Mediterraneo, snodo geografico e culturale da sempre fra Africa,
Vicino Oriente ed Europa, diverrà, se possibile, ancora più
rilevante di quanto non lo sia già stato dalla fine del XIX secolo,
quale linea di comunicazione vitale per gli imperi anglo-sassoni,
oltreché frontiera fra il Nord ed il Sud del mondo.

Nel Mediterraneo,
per le ragioni appena tratteggiate, abbiamo assistito negli ultimi
anni ad una singolare “ripresa” del ruolo della Francia
come potenza mondiale, ruolo che sembra abbia trovato, dopo qualche
esitazione, il supporto esplicito di Stati Uniti e di Israele: questo
elemento relativamente nuovo, ha già avuto conseguenze determinanti
per l”Italia, oggi relegata alla semplice condizione di piattaforma
logistica dei grandi alleati occidentali, senza che di tale
condizione di rinnovata minorità si pensi oggi nel nostro Paese ad
analizzare ragioni e conseguenze, né tanto meno ad elaborare
strategie per un più incisivo ruolo del nostro Paese nel
Mare
che resta non retoricamente ma concretamente
Nostrum.

Il fatto che
l”egemonia anglo-sassone, espressione epocale della storia
occidentale, sia insidiata dalla muova potenza estremo-orientale non
può non influire sul ruolo del Russia e, di conseguenza, sulla
situazione europea.

Per certi versi la
Russia si trova oggi in una condizione analoga a quella che l”impero
zarista si trovava ad affrontare sul finire dell”Ottocento e fino
alla Grande Guerra, esattamente un secolo fa. Il grande Paese
euro-asiatico era infatti premuto ad oriente dalla crescente potenza
giapponese, mentre ad occidente l”impero tedesco era un fattore
gravido di incognite per il suo futuro.

Oggi, la politica
estera russa ha costruito un asse preferenziale con la Cina, dato che
in occidente la pressione della Nato e degli Usa non si è
minimamente allentata, né l”Unione Europea ha saputo smarcarsi
rispetto ad una politica atlantica che, dalla Guerra Fredda in
avanti, ha sempre considerato una Russia forte ed autonoma come un
pericolo per gli equilibri mondiali.

Il recente discorso
pubblico del presidente Putin dimostra la chiarezza con la quale
questi elementi sono presenti alla classe dirigente russa, anche in
epoca post-sovietica e dopo la passeggera ubriacatura
filo-occidentale che per qualche lustro ha sembrato possedere il
paese. Putin ha affermato che, pur non perseguendo più una politica
da superpotenza, la Russia non rinuncia al suo ruolo di grande
potenza sullo scenario mondiale e per questo non intende rinunciare
nemmeno ad una propria forte capacità militare, in grado di tutelare
i propri fondamentali interessi strategici.

Si tratta di
vedere, alla luce della nuova gravitazione del mondo sull”Oceano
Pacifico, se la Russia seguirà la propria vocazione asiatica oppure
quella europea. Ed è davvero singolare il fatto che l”Europa
continui a seguire pedissequamente i desiderata americani, rivolti ad
isolare la Russia sul piano internazionale, invece di perseguire una
propria assai più realistica politica di avvicinamento ed
integrazione con il grande Paese che costituisce la sola efficace
copertura del nostro continente rispetto a qualsiasi ambizione
cinese.

In questo quadro,
per quanto troppo rapidamente sintetizzato, emerge una volta di più
l”importanza dell”Italia come Paese che si trova collocato, dalla
geografia dalla storia e dalla sua essenza culturale, al crocevia
delle forze che fin da ora contribuiscono a plasmare l”avvenire di
un”umanità mai come oggi ricondotta ad unità planetaria.

L”evidente mancanza
di coscienza, nelle classi dirigenti degli ultimi decenni, di questa
importanza è, in definitiva, uno dei fattori più gravi e
preoccupanti della nostra attuale condizione storica; uno degli
elementi che meglio aiuta a evidenziare la devastante pochezza degli
uomini e delle forze che, privi di un sentire vivamente operante e
non retorico per la patria, si sono avvicendati sulla scena pubblica
italiana, interamente rivolti al proprio
particulare,
colpevolmente ignari delle prove che anche l”Italia si troverà
presto a dover affrontare.

Parte
seconda: oligarchie finanziarie contro democrazia del lavoro.

La
lezione del 2007-2008 non è stata compresa. Basterebbe questa
affermazione per definire lo scenario dell”economia mondiale dei
prossimi mesi ed anni.

I
grandi centri finanziari mondiali, che elaborano le strategie
sistemiche dell”economia mondiale, dimostrano di non volere e di non
potere rinunciare all”orientamento speculativo che è insieme
all”origine della crisi che ha investito il sistema-mondo nell”ultimo
quinquennio, e che, allo stesso tempo, costituisce il fondamento
stesso del potere dei “padroni dell”universo”, come questi
oligarchi amano definirsi.

Lo dimostra il
fatto che nessuna delle regolamentazioni statunitensi o europee ha
affrontato le tre questioni che avrebbero dovuto essere preliminari
all”adozione di qualsiasi modalità di risoluzione della crisi.

Primo, le isole
del tesoro

internazionali, collocate nei “paradisi fiscali” che
sfuggono a qualsiasi controllo pubblico e che tuttavia sono la rete
logistica mondiale cui si appoggia tutta la speculazione finanziaria
internazionale. Secondo, gli
strumenti
finanziari

speculativi,
che fuori da ogni controllo continuano ad alimentare l”industria
della speculazione, fornendogli una massa di manovra (stimata
prudenzialmente, nel solo caso dei
derivati,
in 500.000 miliardi di dollari nel 2011), costantemente alimentata al
preciso scopo di accrescere senza limite la capacità di
moltiplicazione dei profitti, da un lato, e, dall”altro, di sottrarre
a controllo il potere dei detentori della moneta virtuale. Terzo, le
società di rating,
i cui azionisti sono tanto profondamente radicati nel sistema
finanziario internazionale da rendere risibile la pretesa di queste
cosiddette agenzie di essere al di sopra delle parti: ragione questa
per cui nessuna credibilità né oggettività possono avere
valutazioni espresse da attori per altro già privi di qualsiasi
legittimità giuridica internazionale.

La risposta dei
governi occidentali, sia di modello statunitense che europeo, si è
semplicemente articolata su tre linee: definire un perimetro di
organizzazioni finanziarie internazionali “troppo grandi per
fallire”; intervenire in loro difesa, con la produzione di una
gigantesca massa di aiuti monetari, ad un costo di oltre 7.700
miliardi di dollari nei soli Stati Uniti, mediante politiche dirette
dagli stessi istituti di credito internazionali, sia nel caso della
Federal Reserve che della BCE; spremere, con politiche di riduzione
della spesa pubblica e di innalzamento della pressione fiscale,
quante più risorse possibili dal lavoro dei popoli, allo scopo di
impedire la bancarotta di Stati interi, come già avvenuto negli Usa,
in Islanda, Irlanda, Grecia e in Portogallo, e come ancora potrebbe
accadere: in tal modo “fiscalizzando” le rovinose perdite
del sistema finanziario internazionale.

Nessuna strategia
diversa è stato possibile concepire negli Usa e in Europa per il
semplice fatto che, da oltre mezzo secolo, sono i centri finanziari
mondiali a condizionare gli Stati nazione dell”Occidente, grazie alla
formazione di una vera e propria classe dirigente internazionale che
occupa con continuità le posizioni chiave, indipendentemente dalle
alternanze di governo e dalle competizioni elettorali: classe
dirigente cui viene affidata la puntuale esecuzione di strategie
economiche, monetarie e legislative costruite a livello globale. Una
vera e propria
oligarchia
economico-politica internazionale, che ha progressivamente svuotato
di significato la democrazia parlamentare occidentale, giacché il
popolo è stato privato della sua prerogativa essenziale, la
sovranità, per un verso e, per l”altro, della sua principale forza
politica, il lavoro.

La
finanziarizzazione dell”economia mondiale, cui abbiamo assistito
nell”ultimo mezzo secolo, ha infatti anche influito in modo
determinante sulla trasformazione dei sistemi industriali. In primo
luogo, a causa della tendenza, a partire dagli anni Ottanta, da parte
degli attori del sistema finanziario, ad intervenire sul controllo
delle aziende, i cui pacchetti azionari sono diventati “merce”
sui mercati finanziari mondiali; in tal modo, il management aziendale
ha sempre più dovuto tenere in considerazione i desiderata degli
azionisti di controllo, invece di concentrarsi su strategie
produttive e commerciali virtuose; di conseguenza, le strategie
industriali si sono rivolte sempre di più al breve termine piuttosto
che a piani di investimento, ricerca e sviluppo in grado di
rafforzare i sistemi produttivi nel loro insieme. La
finanziarizzazione, dunque, è diventata il carattere prevalente
anche al livello delle grandi imprese: in questo modo, si è anche
accentuata la tendenza da parte della proprietà a servirsi degli
utili per entrare nel grande gioco finanziario, piuttosto che
reinvestire nel futuro delle imprese.

Per questa via,
assecondata anche da quanti hanno promosso l”idea della
“democratizzazione della finanza”, il lavoro produttivo e
la piccola impresa, entrambi legati alle libere capacità umane,
nonostante la loro predominanza statistica, sono stati
marginalizzati: una tendenza che oggi si completa, quando i grandi
gruppi bancari preferiscono investire i generosi aiuti ottenuti a
spese della collettività nell”acquisto di titoli di Stato piuttosto
che nel credito alle PMI.

Le forze politiche
al potere nei diversi contesti nazionali, di qualsivoglia
orientamento, non sono state capaci, per le ragioni già viste, di
elaborare politiche alternative a quelle dettate dai dogmi
dell”economia speculativa. L”unica risposta in termini ideologici è
stata quella di enfatizzare, difronte alla complessità ed alle
dimensioni dei problemi operativi, l”intervento dei cosiddetti
tecnici, la cui pochezza, che di rado ha saputo raggiungere persino
un livello di buona pratica ragionieristica, è sotto gli occhi di
tutti.

È dunque evidente
che fino ad ora, in questo scenario, si è persa l”occasione per
prendere coraggiosamente atto della crisi come di un evento globale e
non contingente, esigendo quindi, da parte delle classi dirigenti, un
radicale mutamento di rotta. Tale mutamento non potrebbe che fare
perno sull”
emancipazione
dell”economia reale
,
quella degli imprenditori, dei lavoratori e dei consumatori, dal
controllo dell”oligarchia finanziaria e dalla strumentalizzazione
politica dei partiti – con la creazione di autonomi strumenti di
decisione, opportunamente istituzionalizzati. Istituzioni autonome
dell”economia reale che dovrebbero esigere il controllo, per esempio,
della moneta e del credito.

La crescente
consapevolezza dei “limiti allo sviluppo” che si sono
sempre più chiaramente manifestati negli ultimi decenni, impone
anch”essa che le forze dell”economia reale, piuttosto che rincorrere
le asticelle statistiche della “ripresa”, si impegnino a
riorganizzare la produzione, nel campo dell”energia, della
tecnologia, dei servizi, dei beni di largo consumo, orientandola
verso prodotti a basso impatto, recuperabili, di elevata qualità e
durata – un riorientamento in grado di imprimere nuovo dinamismo ai
sistemi produttivi.

Solo dando voce,
spazio e autorità a chi opera nell”esistenza reale degli organismi
sociali, come imprenditore, lavoratore e consumatore, si può pensare
di liberare l”economia dal peso congiunto del debito e della
speculazione, realizzando quella
democrazia
del lavoro
senza la
quale la democrazia politica è ormai divenuta un guscio vuoto.

FONTE:

IN TEMA DI PROGETTI PER L”EUROPA, LEGGI:

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