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Fidel Castro, un uomo di sinistra

Ora il Novecento finisce non solo per Cuba, ma per un mondo che vide nelle ideologie le forme del divenire umano cui aderire con scelte di campo nette e irreversibili.

Fidel Castro, un uomo di sinistra
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26 Novembre 2016 - 22.52


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di Gennaro Carotenuto.


NEW YORK – Con la morte di Fidel Castro finisce il Novecento. Non è una frase fatta, non finisce solo per Cuba o per l’America, ma finisce un mondo che vide nelle ideologie, nel liberalismo o nel socialismo, le forme del divenire umano alle quali aderire con scelte di campo nette e per molti irreversibili. Pur senza nostalgie per queste, il mondo si è tornato a dividere su linee pre-democratiche, la razza, la religione, ma soprattutto il muro di ingiustizia, di dolore e di discriminazione mai così alto tra ricchi e poveri, che conferma come quella di un mondo senza classi fosse un’utopia, probabilmente irrealizzabile, ma la più alta delle utopie. Per decenni ai balseros cubani e a quelli haitiani sono state riservate sorti opposte: accolti come eroi i primi, respinti come indesiderabili i secondi. Oggi, che con la morte di Fidel il Novecento è finito, alcuni vigliacchi possono celebrare il fatto che possano democraticamente essere respinti tutti.

Fidel Castro, nella complessità del personaggio e del dirigente, ha rappresentato ben di più di un’adesione a un modello, quello marxista-leninista e quello del socialismo reale, venuto da altrove. L’appoggiarsi al campo socialista non fu solamente una scelta inevitabile alla quale gli stessi USA spinsero la giovane rivoluzione cubana fin dai primi mesi del 1959, convinti di poter meglio controllarla e finendo invece per esaltarne l’epopea. Se la necessità di stare in un sistema di alleanze quale quello socialista era all’epoca l’unica via per smantellare il ruolo subalterno al quale Cuba era destinata nel sistema mondo, sarebbe errato ridurre a scelta tattica quella del socialismo e del ruolo dominante dello Stato come regolatore della società: questo resta il tratto fondamentale dell’esperienza politica di un leader comunista come Fidel Castro. Me declinarlo solo come tale, per uno che ha attraversato la storia da Kennedy a Obama, da Kruscev a Putin, da Allende a Chávez, da Ho Chi Min a Mandela, da Roncalli a Bergoglio in un’evoluzione intellettuale continua, sarebbe altrettanto riduttivo per ricordare un dirigente politico terzomondista – lasciatemi usare una categoria desueta – che ha visto in ogni punto cardinale e non solo nel Nord la soluzione.

Nato negli anni Venti, maschilista e omofobo nei suoi albori – tempi nei quali quasi tutti di qua e di là della barricata erano maschilisti e omofobi – come tutti i marxisti disattento e sospettoso delle differenze, il processo popolare del quale era alla testa ha aperto spazi inimmaginabili alle donne comparabili forse solo ai paesi scandinavi, e poco è mancato che Fidel non morisse icona gay, con un’autocritica ampia e sincera, iniziata almeno vent’anni fa, dall’epoca di “Fresa y chocolate”. Dall’ateismo di Stato della realpolitik di epoca brezneviana – in un Continente dove giova sempre ricordare che la chiesa cattolica è stata spesso schierata dalla parte dei carnefici e contro la causa popolare – Castro aveva, da prima dello storico incontro con Karol Wojtyla, riaperto gli spazi di libertà religiosa come ampiamente riconosciuto dal Cardinale primate Ortega, che da anni dichiara di non avere alcun conflitto da lamentare con la Rivoluzione. Sentir parlare di “chiesa del silenzio” suona dunque stantio e riduttivo mentre centinaia di religiosi conciliari, che avevano scelto l’opzione preferenziale per i poveri, venivano assassinati, non a Cuba, ma nel resto del continente, da Carlos Mujíca a Óscar Romero, con il Vaticano che in genere guardava altrove e qualche volta giocava a tennis con i carnefici. Come lo definisce Frei Betto, e se ne facciano una ragione gli spiriti reazionari, Fidel era innanzitutto un uomo di sinistra, progressiva ed evolutiva, con la bussola puntata verso la giustizia e alla ricerca di soluzioni per un mondo troppo complesso, infinitamente più moderno e aperto sia dei suoi spesso insopportabili apologeti sia dei suoi infidi detrattori, entrambi attaccati pervicacemente a icone più che a fatti e volti a impedire anche solo il tentativo di un giudizio equanime.

Eppure, ridurre la storia di Castro all’interno della guerra fredda e della sconfitta esiziale del campo socialista di fronte a quello liberal-capitalista, è comodo per i critici ma fuorviante per chi vuol capire un percorso di lunga durata, non foss’altro perché il muro di Berlino è caduto trent’anni dopo la Rivoluzione e da allora ne sono passati quasi altrettanti nei quali Cuba si è reinventata completamente. Se Cuba fosse stata davvero il “gulag tropicale” e Fidel un Ceaucescu o un Honecker, la Rivoluzione sarebbe caduta nell’ormai remoto Ottantanove, come tutti i politologi, nessuno escluso, per tacere dei media, davano, superficialmente, volgarmente, per scontato. Non è andata così, e la storia come sempre è più complessa.

A Cuba, in particolare nella prima metà degli anni Settanta, il periodo più grigio che succedette al riallineamento dopo Praga, vi sono stati costantemente alcune decine e in alcuni periodi alcune centinaia di prigionieri politici. Sono una frazione dei disgraziati detenuti senza alcuna incriminazione a Guantanamo, alcuni ormai da 15 anni. Anche un solo prigioniero politico è di troppo, ma è scomodo dover costatare che non vi sia un solo paese del continente americano, Canada escluso, Stati Uniti inclusi, dove i diritti umani siano stati violati meno che dalla dittatura cubana in questi 57 anni. In tale contesto continentale, e anche senza voler calcare la mano sulla costante aggressività statunitense, sull’embargo, sulla baia dei porci, sull’infiltrazione e sull’uso del terrorismo di Stato di centinaia di Posada Carriles, chi volesse trovare nella repressione politica, nel “gulag tropicale”, il tratto distintivo dell’esperienza cubana sbaglierebbe.

C’è un episodio che chi scrive ha invece sempre considerato paradigmatico della storia della Rivoluzione cubana, ovviamente sottaciuto dai più nel Nord del mondo: l’intervento militare in Angola. Mentre di quello in Etiopia, cubani ascari del Cremlino in quel caso, non c’è nulla di buono da ricordare, i cubani in Angola rappresentarono il più alto esempio di internazionalismo dai tempi delle Brigate Internazionali in Spagna.

Nelson Mandela affermò più volte ed esplicitamente che senza la Rivoluzione cubana, senza la volontà politica di Fidel Castro, senza il sangue di migliaia di combattenti cubani, oltre che degli angolani dell’MPLA di Agostinho Neto, delle milizie armate del suo African National Congress e dei namibiani della Swapo, l’apartheid non sarebbe finita. L’apartheid non finisce perché finisce la guerra fredda o per un atto lungimirante dei buoni razzisti come in Occidente piace pensare, ma perché fu sconfitto militarmente a Cuito Cuanavale, nella più grande battaglia campale in territorio africano dalla fine della seconda guerra mondiale. I cubani vi svolgono, tra la fine dell’87 e l’inizio dell’88, un ruolo decisivo e lì si aprono le porte del carcere dove il “terrorista” Mandela era sepolto da oltre un quarto di secolo. Per Cuba, per Fidel, l’internazionalismo e la lotta al razzismo non erano parole.

Anche perciò Cuba è stato ben altro, quando e come ha potuto, partendo da condizioni oggettive che restano quelle di un paese la “memoria del sottosviluppo” del quale tende a sfuggire ai più. Fidel Castro e la Rivoluzione hanno incarnato davvero quel nazionalismo umanista e latinoamericanista di José Martí, cosciente e progressivo, che sa che solo in un rapporto non subalterno con gli Stati Uniti, il rincontro con i quali (che vi piaccia o no) è parte delle cose, può esserci futuro per l’isola e i suoi abitanti. “El Caballo” conclude la propria esistenza con il declinare del ciclo progressista latinoamericano – del quale gli è stato da chiunque tributato il ruolo di padre nobile – alla fine della dignitosa presidenza Obama e alla vigilia di quella Trump. La sua stagione politica non è quella del rincontro con gli USA, che spetta a Raúl e a chi succederà a Raúl nel 2018, ma fu quella dell’insubordinazione, della pretesa del rispetto, della resistenza alle bastonate con le quali una decina di presidenti statunitensi hanno cercato di cancellare il problema geopolitico cubano nel mezzo del Mar dei Caraibi come lo avevano sempre risolto, esercitando il loro ruolo di potenza egemone nel Nord, Centro America e nei Caraibi: con la forza, appoggiandosi a orribili carnefici, tra i quali Fulgencio Batista. Cuba, Fidel, hanno tenuto loro testa.

È un bene che i cubani – in particolare le nuove generazioni – vogliano cambiare, evolvere, andare oltre, senza dover essere simboli di nulla e per nessuno. Ma possono farlo perché il fidelismo è stato un modello originale di ricostituzione della dignità offesa nell’origine della nazione nel 1898. Questa si era resa solo in parte indipendente con un pesante intervento militare straniero (che allo stesso tempo sanciva il definitivo ruolo di potenza globale che gli Stati Uniti stavano prendendo), che fin da subito riconosceva la propria subalternità e assegnava agli USA il diritto-dovere di intervenire nelle cose dell’isola. Oggi, 118 anni dopo l’indipendenza dalla Spagna e 57 anni dopo la Rivoluzione, Cuba e i cubani possono guardare a se stessi non più come un angolo subalterno del mondo. Quante migliaia di ore ha dedicato Fidel, con quell’oratoria sulla quale qualcuno ironizzava, a cercare di convincere i giovani cubani di non essere inferiori a nessuno!

Oggi i cubani sono profondamente diversi da allora, hanno studiato, sono sani, e sono capaci di guardare al bene e al male di un sistema politico che resta iper-burocratico e poco efficiente e che non è stato capace – ammesso che fosse possibile – di vincere tutte le dipendenze che la storia e la geografia hanno imposto all’isola, a partire da rendite agrarie sempre insufficienti e che, oggettivamente, il sistema statalista non poteva risolvere. Vivono in questo mondo, hanno aspirazioni, desideri, frustrazioni. Soprattutto, in un mondo dove il desiderio di consumo muove tutto, e in un paese dove questi restano straordinariamente compressi, neanche la barba di Fidel aveva il diritto di dire quanto rivoluzionario fosse rinunciare allo shampoo.

Strano dittatore dunque, questo Fidel Castro. Fu dittatore per mezzo secolo dell’unico paese del continente americano che non ha conosciuto il dramma dei desaparecidos. Centinaia di migliaia di persone sono state fatte sparire nel frattempo da dittature e democrazie filostatunitensi in tutto il continente. È triste pensare che solo la dittatura di Fidel Castro abbia fatto da argine al crimine contro l’umanità della sparizione forzata di persone e del terrorismo di stato. Senza libertà di stampa, Cuba è pur sempre l’unico paese al mondo dove non è mai stato ammazzato un giornalista. E neanche un sindacalista, laddove in paesi come il Brasile, il Messico, la Colombia ne cade senza rumore uno al giorno. E neanche un bambino è più morto di denutrizione nell’unico paese che, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, è libero dalla denutrizione infantile in un continente pieno di terre fertili e acqua potabile ma dove la fame resta uno scandalo. Il che non significa che per le famiglie cubane sia stato facile in questi decenni mettere sufficienti calorie a tavola ma a Tucumán, nel pieno del neoliberismo reale e con il plauso del Consenso di Washington, si era arrivati al 70% di denutrizione infantile. Era questa l’alternativa alla rivoluzione cubana? Gli apologeti ne sono sicuri ma non vi è prova. Mentre a Cuba si faceva una gran fatica durante il periodo speciale, le democrazie rappresentative dell’America Latina straziata dal neoliberismo – il vero tratto della storia regionale che unisce la guerra fredda a noi – conoscevano i morti per fame, la riduzione indiscriminata dei diritti civili, della scolarità, della salute. Erano governate da signori per bene, i Carlos Andrés Pérez a Carlos Menem, da Fernando Henrique Cardoso a Felipe Calderón, senza dover neanche più scomodare i Pinochet, i Videla, i Trujillo, i Somoza.

È in questa America latina e in questo mondo che ha vissuto, operato e a volte sbagliato, l’uomo del Novecento Fidel Castro. Nell’esercizio della sua demonizzazione in molti hanno costruito carriere, in particolare i conversi, coloro che furono comunisti, che per Cuba si erano spellati le mani, e che nel ribaltamento della loro ideologia ne hanno sposato con altrettanto fervore l’opposto, rimanendo sostanzialmente quello che erano, pronti a servire il padrone del momento. Chi invece comunista non è stato mai è più libero di essere equanime e tratteggiare Fidel nelle sue luci e le sue ombre, come qui ho cercato di fare. D’altra parte anche quelli per i quali Cuba dovrebbe rimanere quello che forse è stata nei sogni della loro gioventù, dimostrano di non aver capito e rispettato veramente il divenire di una storia ammirevole.

Fidel Castro è stato probabilmente il più grande dirigente politico latinoamericano della Storia. Se il suo amico Nelson Mandela ha passato buona parte della vita come “terrorista” per poi essere santificato da tutti, con Fidel il destino è stato diverso, osannato da un campo e demonizzato dall’altro, anche se molti son saltati dalla parte più conveniente, lungo una linea divisoria ideologica che in questo secolo è sempre più sbiadita. La storia lo assolverà, lui ne è sempre stato convinto, ma anche i contemporanei potrebbero essere un po’ più onesti con Fidel.




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