di Margherita Furlan
Il governo albanese ha espulso due diplomatici iraniani, l’ambasciatore Gholamhossein Mohammadnia e Mohammed Roodaki, funzionario presso l’ambasciata a Tirana, accusati di essere membri sotto copertura dell’intelligence iraniana. Secondo quanto riferisce il quotidiano The Independent, i due sarebbero stati parte di una cellula il cui compito era di organizzare “un complotto per colpire l’opposizione iraniana rifugiatasi in Albania”. La mossa sarebbe stata messa in atto in seguito a colloqui con Paesi “interessati”, tra cui Israele e Stati Uniti. Non a caso l’amministrazione di Washington si è immediatamente congratulata con l’esecutivo albanese per il provvedimento intrapreso.
La notizia diffusa dall’Independent ha però sollevato l’attenzione su uno scenario fino ad ora poco studiato e rimasto comunque fuori dal raggio di attenzione internazionale. Scenario in cui gli Stati Uniti hanno affidato all’Albania un ruolo centrale, e il cui fine (uno dei fini) appare quello di incrementare la destabilizzazione dell’intera area balcanica.
Protagonista di tutta l’operazione è l’organizzazione islamica cosiddetta dei Mujaheddin e-Khalq (Mujaheddin del Popolo, MEK) che dispone ora di una grande base in territorio albanese. L’arrivo in Albania del comando del MEK è preceduto da una storia oltremodo lunga e tortuosa che merita di essere raccontata in dettaglio.
I Mujaheddin e-Khalq nacquero nel 1963, in Iran, con l’obiettivo di opporsi all’influenza occidentale nel Paese e come acerrimi avversari del regime dello Shah. Nel 1979 il Mek partecipa alla rivoluzione guidata da Khomeini ma l’ideologia che lo caratterizzava all’epoca era un singolare incrocio di marxismo, femminismo e islamismo. Come tale del tutto incompatibile con quella degli ayatollah sciiti e il Mek è costretto a disperdersi, mentre il suo quartier generale si trasferisce a Parigi nel 1981. In questo lasso di tempo il MEK “cambia pelle”, oltre che ideologi e finanziatori e, cinque anni dopo, riappare in Iraq, precisamente a Camp Ashraf, a nord di Baghdad. Si distingue come formazione armata autonoma — alcune migliaia di combattenti bene addestrati, con le famiglie al seguito — che supporta Saddam Hussein contro l’Iran e appare attivamente in numerosi episodi della repressione dei curdi iracheni. Il MEK sopravvive stranamente alla caduta di Saddam Hussein e, nel 2003 viene trasferito, dagli americani vincitori, letteralmente “armi e bagagli”, in un altro grande accampamento militare che prenderà, non a caso, il nome di Camp Liberty. Da quell’avamposto si diramano numerosi attentati terroristici e azioni di diversione e boicottaggio contro l’Iran. Formalmente “disarmato” dall’esercito statunitense, inserito nella lista delle organizzazioni terroristiche internazionali, il MEK continua a svolgere una intensa azione bellica e propagandistica contro Teheran.
Sempre sotto la guida del Quartier Generale di Parigi e sempre lasciato libero di agire dai servizi segreti americani, israeliani, francesi. L’ambiguità della sua collocazione non gl’impedisce — anzi lo aiuta — di incassare il supporto più o meno esplicito di esponenti politici occidentali. Ad esempio quello dell’ex sindaco di New York, Rudolph Giuliani, insieme a quello di John Bolton, ex rappresentante USA alle Nazioni Unite e attuale consigliere per la sicurezza nazionale.
Perfino l’ex commissaria europea Emma Bonino si affaccia ad alcune delle sue iniziative “umanitarie”. Sul New York Times, nel 2012, fu pubblicato un elenco di sostenitori, tra cui diversi esponenti del Congresso americano, ma anche R. James Woolsey e Porter J. Goss, ex direttori della Cia, Louis J. Freeh, ex direttore dell’Fbi, Tom Ridge, ex segretario della Homeland Security sotto la presidenza George W. Bush, l’ex procuratore generale Michael B. Mukasey e l’ex consigliere per la sicurezza nazionale, il generale James L. Jones, ai tempi di Obama. Il quotidiano statunitense illustrò anche come l’allora Segretario di Stato, Hillary Clinton, “sdoganò il Mek, rimuovendolo dalla “black list” (l’organizzazione era considerata terrorista non solo da Iran e Iraq, ma anche da Unione europea, Gran Bretagna, Usa e Canada). E così ritroviamo il MEK in Albania.
Di nuovo con “armi e bagagli”. Impresa molto costosa, che ha certamente richiesto un consistente ponte aereo e grandi spese di insediamento per migliaia di persone. Organizzatori di un tale esodo sono stati, senza alcun dubbio, i servizi segreti americani. Ma perché proprio in Albania? E con quali compiti?
Qualcuno è andato a chiederlo a diversi politici albanesi e si è sentito rispondere, senza alcun imbarazzo, qualcosa del tipo: “l’America ci ha dato il Kosovo, ora dobbiamo dare qualcosa in cambio”.
Interessante l’intervista recentemente rilasciata al Balkans Post da Olsi Jazexhi, storico canadese-albanese specializzato nella storia dell’Islam nell’Europa sud orientale: “l’America sta trasformando l’Albania in un rifugio sicuro per il jihadismo internazionale”.
I “Mojahedeen del popolo” sono una presenza senza precedenti in Albania, che pure ha ospitato non pochi combattenti islamici prima e durante la guerra contro la Jugoslavia. Quando gli USA portarono il primo gruppo di jihadisti iraniani in Albania, il governo iraniano protestò pubblicamente e vigorosamente. All’epoca, il primo ministro Sali Berisha assicurò agli iraniani che il Mek sarebbe stato ospitato in Albania solo per ragioni umanitarie e nessuna azione contro l’Iran sarebbe stata permessa dal governo albanese. “Tuttavia, il tempo ha dimostrato, — spiega Jazexhi — che i mojahedeen iraniani vennero in Albania non solo per chiedere asilo, ma con l’intenzione di trasformare l’Albania in un secondo Afghanistan, nel cuore dell’Europa”. Il meccanismo sarebbe in sostanza, lo stesso con cui, negli anni ’80, i mojahedeen afghani furono sostenuti e finanziati dagli americani per combattere l’URSS.
E non si tratta di indiscrezioni. Nel 2016 la stessa Voice of America ha annunciato che l’Albania avrebbe accettato 2mila mojahedeen in cambio di 20 milioni di dollari. Sempre con i dollari USA si starebbe costruendo un nuovo campo situato tra Tirana e Durazzo dove, secondo il premier di Bulgaria, Bojko Borisov, andrebbero a dislocarsi gruppi di combattenti dell’ISIS in fuga dalla Siria, colà trasportati con aerei della US Airforce. Il premier albanese Edi Rama ha subito smentito.
Nel campo di Manza sarebbero oggi “ospitati” circa 4.400 membri del MEK, che vivono in quasi completo isolamento, impossibilitati a uscire, anche ad avere contatti con le loro famiglie, evidentemente accampate nelle vicinanze. Qualcosa di simile a una setta, con rigide norme morali e religiose da rispettare. Cosa succeda da quelle parti non è facilmente verificabile data la strettissima sorveglianza che circonda il campo. Ma non si perde tempo. Un recente documentario di Al-Jazeera ha rivelato l’esistenza di un vasto gruppo di militanti che è stato istruito nelle tecniche della diversione informatico-comunicativa: qualcosa che potrebbe essere definita come “cyber-jihad”, ovvero notizie false e attacchi informatici, sia rivolti contro l’Iran, sia destinati al pubblico europeo per far crescere la paura dell’Iran, per influenzare i media europei in vista di una rottura dei rapporti con Teheran.
Nell’ultimo anno diverse sono state le prese di posizione a favore del Mek anche da parte di esponenti del panorama politico italiano. Una delegazione ufficiale del Partito Radicale Italiano e dell’associazione “Nessuno tocchi Caino” ha visitato il quartier generale albanese dei mujaheddin, a sostegno della lotta per i diritti umani contro il governo iraniano. Si è distinto in questa direzione l’ex ministro degli esteri del governo Monti, Giulio Terzi, volando in una delle basi del MEK in Albania per annunciare “appoggio incondizionato”, per definire i suoi militanti come “combattenti per la libertà”, assicurandoli che “un’ampia parte della società italiana è convinta che stare dalla vostra parte significa stare dalla parte giusta della storia”. Infine — sono sempre le parole che Giulio Terzi avrebbe pronunciato in quella occasione, secondo il Guardian —: “I mullah se ne devono andare, gli ayatollah se ne devono andare e devono essere rimpiazzati da un governo democratico sotto la guida della signora Rajavi, leader del Mek”. Un disegno da manuale di “regime change”: rovesciamento di un governo e susseguente “esportazione di democrazia”. Film già visto in abbondanza.
Intanto però, mentre il confine tra l’Albania e il Kosovo sta scomparendo ed Edi Rama, in nome degli standard europei, e con il plauso di Bruxelles (quella della Ue e quella della NATO), lavora perché lo “sportello unico” venga adottato anche al confine con la Macedonia, il Montenegro e la Grecia. La Serbia dev’essere isolata ed esclusa, in attesa di essere sottomessa definitivamente. La Grande Albania si appresta a diventare un’arma puntata su ciò che resterà dell’Europa.