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Venezuela, finale di partita?

Il petrolio, la dipendenza secolare dal petrolio (tanto più a 40$ al barile), è il cavallo di Troia che permette oggi l’aggiotaggio e la guerra economica in Venezuela.

Venezuela, finale di partita?
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7 Dicembre 2015 - 15.11


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di Gennaro Carotenuto

Il meglio della rivoluzione bolivariana, nata dal fallimento sia economico che etico del modello neoliberale che le destre

vogliono riportare in auge in tutto il Continente, è dietro le spalle. Il colpo di timone evocato da Hugo Chávez

difficilmente potrà essere dato dal governo attuale, dalla burocrazia statale, chavista e antichavista insieme, unita nella

ricerca del vantaggio personale, dallo stalinismo di un discorso antiquato e opportunista, che vede in ogni critico un

traditore della patria. Tanto meno potrà essere dato dopo la sconfitta nelle elezioni parlamentari di ieri.

Se colpo di timone dovrà esserci, di qui alle elezioni presidenziali, o anche dopo, se queste dovessero premiare l’

opposizione, dovrà essere dal basso e a sinistra, sapendo che il senso del chavismo, fare in parti uguali la mela del

petrolio che cresce spontanea nel giardino dell’Eden che è il Venezuela, e che pure ha ridonato dignità a milioni di

venezuelani, non è bastato e non basterà a dare stabilità a un modello di paese non escludente. Ieri come allora, la

chiave di tutto è nel creare il potere popolare ma soprattutto nel creare lavoro degno e di massa, qualunque cosa ciò

significhi nel XXI secolo e ammesso e non concesso che ciò non sia una mera utopia, in Venezuela come in qualunque

parte del mondo. Se c’è una chiave comune, la partita, mi si permetta, dal Venezuela alla Francia alla Siria, è

innanzitutto quella contro la sparizione del lavoro degno, come era stato concepito dal movimento operaio tra XIX e XX

secolo, come motore del futuro per le generazioni oggi giovani e per quelle future. Sarà chi scioglierà il rebus del lavoro

nel mondo post-industriale a conquistare le menti e i cuori delle masse nel XXI secolo.

Non è obbiettivo di questa nota fare un bilancio storico del chavismo, peraltro più volte abbozzato in queste pagine. Va

riconosciuto che il grande merito del reinserimento di milioni di proletari nella vita sociale, politica ed economica, dalla

quale erano completamente esclusi durante la IV Repubblica, quella che invece li massacrava nelle piazze, al quale si

aggiunge quello del pieno diritto di un paese e di una regione considerato fino a ieri una semi-colonia a svolgere una

politica estera proattiva, non è stato controbilanciato dal superare altre dipendenze storiche. Chi scrive ne discusse con

Chávez stesso almeno dal 2004; tali dipendenze rendono ogni conquista, anche la più importante, come provvisoria.

Mi riferisco in particolare alla dipendenza dal petrolio. 17 anni nella Storia sono un periodo medio, non lungo rispetto a

ritardi plurisecolari, ma neanche breve per impostare una trasformazione di lungo periodo. Il Venezuela ha reso meno

ingiusta ma non ha trasformato la propria economia, non ha creato né una base industriale forse fuori tempo, né

riattivato la propria produzione agricola in senso cooperativo e artigianale, in larga misura perdendo (e forse è un bene)

anche il treno della velenosa trasformazione agroindustriale che tanto danno fa dall’Argentina alla Colombia passando per

il Brasile. Il Venezuela , in buona sostanza, non si è liberato della rendita petrolifera come unica risorsa con la quale si fa

tutto il bene e tutto il male della storia di questo paese.

Il petrolio, la dipendenza secolare dal petrolio (tanto più a 40$ al barile), è il cavallo di Troia che permette oggi l’

aggiotaggio e la guerra economica, che sta minando le conquiste del chavismo e la fiducia che questo possa essere il

modello futuro del paese. Al nemico si può legittimamente dare nome e cognome, nei tagliagole della guarimba, i

Leopoldo López e le María Corina Machado, la parte di opposizione eversiva ed assassina che solo la malafede dei media

mainstream ridipinge come democratica, ma questi vedono solo la faccia visibile di un’aggressione mai arrestata in 17

anni e che per molti versi, non solo col golpe dell’11 aprile 2002, ricordano l’esperienza di aggressione, demonizzazione,

delegittimazione, vissuta da ben prima di essere eletto il 4 settembre 1970 dal presidente Allende in Cile, attaccato da

destra e da sinistra esattamente come si è fatto in questi anni con Chávez, per poi rimpiangerlo dopo l’epilogo dell’11

settembre.

Ma faremmo torto alla nostra intelligenza se non vedessimo che nel petrolio, oltre alla possibilità di fare giustizia sociale

e dare tetto, educazione, salute – ma non lavoro – c’è anche il germe dell’inefficienza, del clientelismo, della corruzione e,

soprattutto del mancato superamento della dipendenza storica da questo. Ha ragione, Nicolás Maduro a parlare di

guerra economica contro il paese, ma come poteva un Venezuela che continua a dovere tutto all’oro nero, ed è un

demerito storico della rivoluzione bolivariana non aver alleviato tale dipendenza quando il prezzo era altissimo, non

essere vittima oggi della tempesta data dal crollo del prezzo del greggio?

Il risultato elettorale del 6 dicembre è netto ed è in favore del MUD, il cartello delle destre. Come sempre in questi

diciassette anni hanno parlato le urne e una partecipazione elettorale eccezionale; sono dati che rendono ammirevole la

storia democratica del paese in questo scorcio di XXI secolo. In quel che resta del suo mandato Nicolás Maduro dovrà

governare con il parlamento contro, i media come sempre contro, le classi dirigenti contro, la guerra economica contro,

un quadro internazionale revanscista che affiderà al neo-presidente argentino Mauricio Macri il lavoro sporco, una parte

della classe dirigente chavista, quella che in questi anni si è solo data una patina di rosso, che farà il suo gioco

preparandosi al dopo. È un compito titanico per il quale difficilmente basterà la dedizione del collaboratore più stretto del

presidente Hugo Chávez, lo straordinario dirigente politico scomparso a meno di 60 anni il 5 marzo 2013.

Restano da dire due cose: da Felipe González fino all’ultimo velinaro dei nostri giornali, tutti quelli che in questi mesi

avevano spergiurato che le elezioni non si tenessero, o che ci fossero dei brogli governativi o addirittura un auto-golpe,

sono stati come sempre smentiti in tutta la loro malafede e volontà di disinformare, diffamare, distruggere un processo

democratico e popolare. Ancora una volta il Venezuela è andato a votare in pace e ancora una volta i trinariciuti

chavisti hanno accettato la sconfitta. Nella sua caoticità il Venezuela chavista in tutti questi anni ha dimostrato di

essere una democrazia rappresentativa, rispettosa della volontà popolare e sarebbe bene se ne prendesse atto.

E qui va la seconda e finale questione: alla democrazia rappresentativa e quindi all’alternanza in America latina non c’è

alternativa e proprio il rispetto nei processi elettorali che le sinistre hanno saputo vincere per quindici anni in Venezuela

e altrove lo testimonia. Nell’ora nella quale l’opposizione di destra vuole tornare a essere governo, sta alla sinistra

difendere quanto conquistato. Sta alla sinistra dimostrare se davvero in questi quindici anni, nel Continente più

politicizzato del mondo, questa ha modificato i rapporti egemonici rispetto all’epoca delle dittature e della notte nera

neoliberale. Se è così, se qualcosa di solido è stato costruito in questi anni, vorra dire che ripartiremo da equilibri più

avanzati e meno escludenti e questa non tornerà.

(7 dicembre 2015)

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