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Qual è la retta via?

Figli che uccidono i genitori. Considerazioni al di là del bene e del male. [Marco Nicastro]

Qual è la retta via?
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17 Gennaio 2017 - 18.04


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di Marco Nicastro

Dinnanzi agli svariati, atroci fatti di cronaca cui assistiamo esterrefatti e impotenti dai mass media, sempre più spesso si scatenano le reazioni più varie, anche tra gli esperti della salute mentale. Come è possibile che dei figli – ma i casi degli ultimi tempi non sono affatto problema recente, oggi hanno solo più rilevanza mediatica e forse si distinguono per un maggiore “esibizionismo” dei protagonisti – uccidano barbaramente i propri genitori senza il minimo rimorso? Questo si chiede la gente comune, che spesso si divide nelle sue esternazioni tra estremi di legalismo e di moralismo; reazioni comprensibili per il senso comune, soluzioni, quella della giustizia o della morale pubblica, che possono “chiudere” il singolo episodio aberrante ma che non aiutano ad approfondirlo se non, appunto, nei termini del senso comune.

Massimo Recalcati, in un articolo apparso su la Repubblica il 13 gennaio, ha tirato in ballo la necessità del senso di colpa per garantire l’iscrizione della “Legge”, individuale e collettiva, nella psiche del singolo. Inoltre, ricordando la bellezza di un sacro comandamento “Onora tuo padre e tuo madre”, ha lasciato intendere che fatti come questi (si riferiva nello specifico al delitto di Codigoro) vadano contro una morale di base fondata sul riconoscimento del “debito simbolico” di un giovane individuo verso la generazione che lo ha generato. Tuttavia il riconoscimento della bellezza estetica o anche della giustezza e dell’utilità sociale di quanto espresso da questo comandamento non permette, ancora una volta, di andare più a fondo al tragico dilemma: perché dei figli possono uccide i genitori senza il minimo rimorso? Può il semplice riconoscimento dell’importanza di un generico senso di colpa, e della sua preoccupante evanescenza, condurre i singoli o la società verso un’auspicata “retta via”?

Credo sia innanzitutto necessario fare una distinzione relativa al concetto di senso di colpa. Esiste un senso di colpa normale, frutto dell’identificazione del bambino coi valori morali e gli standard di comportamento dei propri genitori e di altre figure significative di riferimento; il bambino si sente in colpa se trasgredisce quelle norme, cioè se, simbolicamente, commette un atto di aggressività verso i propri genitori. Starà poi a questi ammorbidire i timori del bambino e far sì che il senso di colpa non diventi eccessivamente rigido. Esiste infatti anche un senso di colpa patologico – perché troppo pervasivo e inflessibile (“nevrotico”, secondo la psicoanalisi) – che influisce negativamente sull’autostima dell’individuo bloccando la possibilità di soddisfare i suoi desideri, anche i più naturali ed innocui.

Il senso di colpa, di per sé, è qualcosa che ci si attende nello sviluppo dell’individuo. Esso costituisce un’evoluzione positiva attesa dello psichismo individuale, argine che frena gli impulsi distruttivi e il funzionamento primitivo ed egoistico del singolo basato, secondo il lessico psicoanalitico, sul “principio di piacere”, a vantaggio dell’adattamento nella società. Per questo l’adattamento comunque necessario alla vita comunitaria, come già sosteneva Freud, comporta una sorta di piccola nevrosi individuale, una limitazione dei propri desideri.

L’altro aspetto che vorrei sottolineare, e qui mi avvicino al fulcro di questi episodi di violenza, è che il senso di colpa può anche non svilupparsi affatto e l’individuo può, ad esempio, rimanere bloccato ad una fase evolutiva in cui regna solo il proprio bisogno individuale e gli altri sono meri oggetti da usare per i propri scopi e verso i quali è difficile provare empatia. Quando queste configurazioni di personalità caratterizzate da un’assenza della colpa raggiungono dei livelli estremi si generano “mostri”, esseri umani capaci di commettere atti spietati verso i propri simili lontani dalla morale e dal sentire comune. Ma come, evolutivamente, ciò può accadere?

Il senso di colpa può svilupparsi solo se i genitori sono amati dal bambino. Non è, come si potrebbe pensare, la paura (l’”angoscia di castrazione”, altra espressione psicoanalitica) il motore principale dell’interiorizzazione di valori e standard di comportamento, ma l’amore o attaccamento. Se il bambino si sente amato, rispettato e capito dai propri genitori, se sente amore e rispetto tra loro, li riterrà figure così importanti (e all’inizio idealizzate) da far proprio, anche inconsciamente, tutto ciò che da essi promana: atteggiamenti, valori, norme, perfino elementi dell’aspetto fisico. In altre parole si identificherà con loro, consolidando così la propria identità. Spinto da quell’amore e dal sottostante bisogno di amore – bisogno connaturato nello psichismo umano – egli le percepirà come persone importanti, cercherà di gratificarle perché la loro soddisfazione è anche la sua.

Il bambino, infatti, specie negli anni prescolari, è affettivamente dipendente dai propri genitori, non distingue bene tra la propria e la loro percezione, tra le proprie e le loro idee (la sua identità autonoma non si è ancora stabilita) e non saprebbe come fare senza il loro apporto affettivo in un mondo dinnanzi al quale è ancora impotente. I genitori sono indispensabili alla sua sopravvivenza, fisica e psichica, ed egli si muoverà innanzitutto per amor loro. Quando questo processo giungerà a compimento, spinto anche dal contemporaneo sviluppo cognitivo che permette al bambino di memorizzare e di elaborare idee e concetti con un grado crescente di astrazione, gli rimarrà un “Super-io”, cioè un rappresentazione psichica (conscia e inconscia) capace di guidarlo nel suo comportamento in assenza dei genitori; un’istanza interiore che, appunto, potrà essere più o meno armonica con la natura e i bisogni specifici del bambino, e quindi più o meno “normale”.

Se però quell’amore tra bambino e genitori non c’è stato, se il loro legame è stato segnato dall’odio, dalla rabbia, dalla svalutazione, dalla manipolazione strumentale (per gli scopi emotivi dei genitori) o, cosa non meno grave, dall’indifferenza, e se il legame tra i genitori stessi non è stato un esempio di rispetto e di amore, il bambino non interiorizzerà stabilmente i loro valori, anche se buoni e utili all’adattamento. Egli non li riconoscerà nel profondo come figure significative e degne di rispetto e ammirazione, perché da loro non si è sentito amato e riconosciuto ma piuttosto odiato, usato o nemmeno considerato, pur non avendo potuto fare a meno di accettare la loro vicinanza e magari di “simulare” amore verso di loro: il bambino infatti sarà ancora a lungo dipendente dalla loro presenza stabile e rassicurante, anche se inadeguata, per poter pensare di separarsi.

Credo che gli episodi di cronaca nera familiare, che paiono ai più scoppiare improvvisamente, siano spesso frutto di un legame inesistente o alterato dall’odio e dall’incomprensione tra genitori e figli; un legame che, se fosse stato normalmente caratterizzato dall’amore, avrebbe comportato rispetto reciproco, desiderio di reciproca gratificazione, comprensione ed empatia, cioè capacità di immedesimazione nei bisogni dell’altro. Senza empatia sperimentata nel corso dello sviluppo – e questo è un altro elemento importante, assieme al processo di interiorizzazione dei valori – il bambino non potrà poi sperimentarla a sua volta verso gli altri. Non avrà interiorizzato un oggetto relazionale di qualità positiva (un “seno buono” direbbe la Klein), né avrà sviluppato quella capacità di riflessione sugli stati mentali di un altro essere umano che viene definita da alcuni autori capacità di mentalizzazione (è questa una delle acquisizioni che ci provengono dagli studi sull’attaccamento umano a partire da John Bowlby).

Quando si verificano episodi del genere si può stare certi che qualcosa di fondamentale nel rapporto genitore-figlio non ha funzionato, e per molto tempo. Non sono cioè eventi addebitabili ad una fase critica temporanea come può essere, ad esempio, l’adolescenza, né a influenze esterne di altre agenzie o dei coetanei.

Quindi, fermo restando il fatto che, come esperti, bisognerebbe sempre approfondire i dettagli di casi specifici prima di poter esprimere un qualche parere pur provvisorio; fermo restando il fatto che delle mancanze sono sempre presenti in tutti i legami genitori-figli (l’aggressività è sempre presente nelle relazioni, come anche il conflitto, ma è solo in un contesto d’amore prevalente che essa viene contenuta e non esita in agiti distruttivi), potremmo dire che, in generale, è la mancanza di amore e rispetto autentici, consapevoli o no, a generare un odio distruttivo verso le figure più importanti della vita di un individuo. E poiché tutti cresciamo con un innato bisogno di legami, di sicurezza emotiva, di riconoscimento, quella mancanza diventerà alla lunga una frustrazione intollerabile e sfocerà in varie forme di grave disagio psicopatologico di cui la violenza agita verso gli altri è solo una delle forme possibili.

Ciò che la società – intesa come macrostruttura organizzativa delle esistenze individuali – può fare per aiutare gli adulti nel difficile compito educativo verso i propri figli, è di fornire modelli di riferimento positivi per i giovani (ma assistiamo invece alla diffusione attraverso i media di una cultura esasperata dell’immagine e del successo ad ogni costo, oltre che di atrocità e violenze in ogni parte del mondo); di favorire la creazione di strutture ricreative e di socializzazione che diano la possibilità ai bambini e agli adolescenti di sperimentarsi con gli altri, imparando di persona la difficile arte dello stare assieme (in tal senso la diffusione dell’uso del web e dei social network, anche tra i più piccoli, è a mio avviso assolutamente nociva perché porta a evitare il rapporto diretto, decisamente più complesso, con l’altro); di fornire occasioni e strutture di supporto ai genitori in difficoltà nel difficile compito educativo dei figli (ma le strutture pubbliche della salute mentale oggi, almeno in Italia, sono sempre più depauperate di personale).

I genitori sono spesso smarriti dinnanzi alla complessità e ai rapidi mutamenti della società contemporanea, la quale richiede necessariamente, molto più che nel recente passato – epoca di grandi ideologie laiche e non – una revisione e un approfondimento soggettivo continuo di ciò in cui si crede come adulti, per poterlo trasmettere in modo adeguato e rispettoso anche ai propri figli.

Essere genitori è un compito difficile e delicato; essere figli in crescita, in un mondo così caotico, forse lo è ancora di più. L’amore genitoriale – intendendo con questo termine, cui spesso ho fatto ricorso, non un sentimento idealizzato e stucchevole ma un affetto che includa anche l’aggressività e il conflitto – e il rispetto verso l’unicità del proprio figlio, inteso come essere diverso da sé, uniti ad un esempio di comportamento onesto e coerente coi valori insegnati nel corso del tempo, sono a mio avviso la via più sicura (e ardua) per superare i problemi che i genitori possono incontrare durante la crescita dei figli e nell’evolversi del rapporto con loro.

Dinnanzi alla violenza tra genitori e figli la condanna morale immediata della collettività, per quanto superficiale, è comprensibile e forse inevitabile; quella della giustizia è doverosa e può avere, se veloce e giusta, anche effetti deterrenti. Ma chi si occupa di salute mentale ha il dovere di approfondire e dare pareri più complessi che cerchino di andare oltre l’apparenza delle cose, il moralismo e il giudizio del senso comune, tutti elementi questi che spesso servono solo a rassicurare le coscienze delle persone “normali” e ad allontanare da esse lo spinoso problema.

Andare al di là di una valutazione superficiale di ciò che è bene o male, considerando la complessità delle vicende relazionali che stanno alla base dello sviluppo psichico degli esseri umani, può forse aiutare a comprendere più correttamente fenomeni così angoscianti.

(17 gennaio 2017)

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