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Così l'Arabia Saudita si compra la politica Usa

Dal 1974 i dati sulla quota di debito pubblico USA posseduta dai sauditi erano di fatto secretati. Scopriamo un peso gigantesco di Riad. [Fulvio Scaglione].

Così l'Arabia Saudita si compra la politica Usa
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27 Maggio 2016 - 17.58


ATF

di Fulvio
Scaglione
.

Qualche giorno
fa l’agenzia Bloomberg è ricorsa al Freedom of Information Act , la legge che
negli Usa dal 1966 garantisce la libera diffusione delle informazioni
essenziali, per chiedere di sapere quale sia la quota del debito pubblico
americano detenuta dall’Arabia Saudita
. Particolare non da poco,
soprattutto considerando che il debito pubblico degli Usa ha raggiunto quota 20
mila miliardi di dollari, pari a circa 60 mila dollari per ogni cittadino
americano e a 161 mila dollari per ogni contribuente fiscale.

Per ottenere
quell’informazione sono occorsi tutto il peso politico di un colosso
dell’informazione e dell’economia come Bloomberg e tutta la forza della legge,
perché dal 1974 tali dati erano di fatto secretati: la quota saudita era
mescolata con quelle di altri tredici Paesi produttori di petrolio, tra i quali
anche Nigeria, Kuwait ed Emirati Arabi Uniti, che tutti insieme, nel febbraio
scorso, detenevano 281 miliardi del debito americano (la quota record, 298,4
miliardi, era invece stata raggiunta nel luglio 2015).

Si badi bene a
quell’anno, il 1974: siamo subito dopo lo “shock petrolifero” del 1973,
quando i Paesi produttori dell’Opec, guidati appunto dall’Arabia Saudita, per
reazione alla vittoria israeliana nella guerra dello Yom Kippur, favorita
dall’appoggio degli Usa e di altri Paesi occidentali, raddoppiarono il prezzo
del greggio, diminuirono le esportazioni verso l’Occidente del 25% e le
bloccarono verso gli Usa e i Paesi Bassi. In Europa tutto ciò si trasformò nel
cosiddetto “shock petrolifero” e nel varo delle politiche di “austerity”.

Il grande
affare lo fecero i Paesi dell’Opec e gli Usa. I primi, grazie all’aumento del
prezzo del greggio, portarono a casa un rapido e colossale arricchimento. Gli
Stati Uniti invece, che venivano dalla fine degli accordi di Bretton Woods e dall’abbandono
della convertibilità del dollaro in oro (Richard Nixon, 1971) trovarono nelle
riserve valutarie di quegli stessi Paesi un indispensabile sostegno alla
propria economia e al valore del dollaro, diventato fluttuante sul mercato dei
cambi.



Per questo la
quota saudita del debito Usa è rimasta così accuratamente “coperta” per tutti
questi anni. Per questo non si voleva far sapere che dei 281 miliardi forniti
dai Paesi produttori di petrolio per rifinanziare il debito, ben 117 vengono da
un solo Paese: l’Arabia Saudita, appunto
.

Gli esperti
però avvertono che la quota saudita (in crescita esponenziale negli ultimi
vent’anni, come mostra la tabella che pubblichiamo) potrebbe essere molto
maggiore. Le statistiche del Fondo Monetario Internazionale dimostrano che le
banche centrali dei diversi Paesi investono in dollari (o in strumenti
finanziari denominati in dollari) in media i due terzi delle proprie riserve.
Dato che a maggior ragione si adatta all’Arabia Saudita, che ha la propria
moneta (il riyal) ancorata al dollaro e la prima fonte delle proprie
esportazioni (il petrolio) prezzata ancora in dollari. Poiché le riserve
valutarie dell’Arabia Saudita ammontano a circa 600 miliardi di dollari, è più
che probabile che ben più di quei 117 miliardi siano investiti nel sostegno
all’economia Usa.

L’impegno
saudita nel debito americano ovviamente impallidisce di fronte a quello della
Cina (1.200 miliardi) o a quello del Giappone (1.100 miliardi). Basta però a
spiegare l’alleanza privilegiata con la casata degli Al Saud, che gli Usa
difendono in ogni circostanza: quale altro Paese, in Medio Oriente, può
investire somme simili?

E poi
quell’impegno ha comunque la sua consistenza. Soprattutto se lo sommiamo a
quello di altre petromonarchie del Golfo Persico come il Bahrein (sollievo al
debito Usa per 1,2 miliardi di dollari), il Qatar (3,7 miliardi), l’Oman
(15,9), il Kuwait (31,2), gli Emirati Arabi Uniti (62,5). Persino l’Iraq, che
ha così “beneficiato” delle operazioni Usa dal 2003 in poi e che florido certo
non è, contribuisce con 13,4 miliardi di dollari.

Per cui ci
troviamo di fronte a questo paradosso. Ogni volta che un attentato dei
terroristi islamici fa vittime negli Usa o in Europa, i nostri politici si
scagliano contro il tentativo cruento di “cambiare il nostro stile di vita”.
Gli stessi politici che, per sostenere le proprie strategie, non esitano a
ricorrere al portafogli degli stessi Paesi che finanziano anche gli estremisti
e i terroristi. Nel caso degli Usa, il famoso “stile” consiste nel far debiti,
nel vivere molto al di sopra dei propri mezzi. Per mantenerlo, vanno bene anche
i denari sauditi o qatarioti. Quelli, almeno, che non vengono spesi per finanziare
i Fratelli Musulmani o l’Isis.

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Proponiamo anche una recente intervista a Flavio Scaglione a cura di Alberto Melotto, su PandoraTV.it:



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