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Gemelli siamesi

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L''editoriale del nuovo numero di ANTIMAFIADuemila

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11 Luglio 2013 - 10.49


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di Giorgio Bongiovanni

Il privilegio del giornalista, a suo rischio e responsabilità, è quello di potersi spingere al di là e oltre il limite della stretta e ardua verità processuale. Permane, come ovvio, il dovere di attenersi ai fatti ma, a partire da questi e supportato dalla logica, chi fa questo mestiere può permettersi di fare deduzioni e trarre anche conclusioni personali del tutto legittime.
Chi ci segue fin dai primi numeri della rivista si ricorderà che le stragi del ’92 e del ’93 e l’ormai famigerata “trattativa” sono sempre stati il centro della nostra linea editoriale.
Non per caso ANTIMAFIADuemila è dedicata alla memoria del generale Carlo Alberto dalla Chiesa e a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino in rappresentanza di tutte le vittime innocenti dello stragismo mafioso. Se torno indietro con la memoria mi viene subito in mente il primo incontro con il colonnello Michele Riccio, all’epoca ancora in servizio, quando seduti davanti ad un piatto della nostra amata cucina siciliana abbiamo parlato di quel groviglio di fatti, misfatti e omissioni che oggi è oggetto di ben tre processi.
Al tempo gli indizi di reato giacevano ancora in faldoni chiusi e/o temporaneamente archiviati con nomi oggi invece, finalmente, di dominio pubblico come quello “sistemi criminali”.
Ci sono voluti vent’anni per aprire uno squarcio di verità, per vedere una parte dei responsabili materiali e morali davanti ad un’unica sbarra con l’accusa di “minaccia a corpo politico dello Stato”.
E dopo tutto questo tempo mi sono convinto di un concetto molto semplice che argomenterò con quanti più dati oggettivi possibile, da giornalista.
Io penso che lo stato e la mafia non abbiano convissuto e non convivano come tutti, osservatori e addetti ai lavori, abbiamo sempre sostenuto. Non è una questione di politica di contenimento per cui l’obiettivo non è mai stato quello di distruggere la mafia ma di conviverci. No, io penso che mafia e stato siano due realtà insite all’interno dello stesso potere, che il nostro è letteralmente uno stato-mafia e vorrei spiegare cosa intendo.
Per evitare di fare di tutte le erbe un fascio e per cercare di farmi meglio comprendere ricorrerò alla distinzione più volte esplicitata dal procuratore aggiunto di Palermo, Vittorio Teresi, e separerò lo stato-mafia dallo Stato-Stato, ma con un’ulteriore precisazione rispetto a quella del magistrato.
Io non credo che ci sia uno stato che controlla il territorio, che lo amministra, che mantiene la democrazia e il nostro relativo stato di benessere, perché crisi o no, noi siamo sempre il 7° paese più ricco del mondo.
Io credo, e lo dico con profondo dolore e rammarico, che lo stato-mafia sia proprio l’attuale classe dirigente che con le sue politiche e con la sua gestione economica ha sprofondato il nostro meraviglioso Paese nel baratro sociale, economico, morale e culturale, intrappolando, oggi, il 21 giugno 2013 mentre scrivo, la splendida Italia nel drammatico disagio in cui ci troviamo.
E per dirla con il dottor Teresi, quello Stato-Stato non è altro che uno sparuto gruppo di cittadini, magistrati, intellettuali e gente onesta che si è fatta partigiana di una resistenza contro questo sistema mafia così come fecero i partigiani contro il regime nazi-fascista.
Come arrivo a questa conclusione?
Dalla nostra storia, quella recente.
Le stragi del ’92 e del ’93 sono state commesse da Cosa Nostra con “altri”, “concorrenti esterni” li definisce la procura di Caltanissetta, “mandanti esterni” secondo la mia personale ricostruzione che, certo, non necessita del vaglio della Corte.
C’è infatti a mio avviso una differenza tra l’eccidio di Capaci, quello di via D’Amelio e le bombe “del continente”.
Mentre per uccidere Falcone si saldò un’incredibile convergenza di interessi, come fece in tempo a dirci lui stesso, perché il più geniale tra i magistrati non solo era il nemico numero uno di Cosa Nostra ma aveva capito il progetto eversivo del potere in quel momento in atto, per assassinare Borsellino fu espressamente chiesto un intervento preventivo, la cosiddetta “accelerazione”.
E non mi riferisco soltanto all’ostacolo alla trattativa intesa come lo scellerato dialogo tra Riina e il Ros per tramite di Vito Ciancimino che come hanno dimostrato le indagini era a conoscenza del magistrato, ma piuttosto all’ostacolo che Borsellino rappresentava per la realizzazione del progetto di lungo termine.
Quello del “fare la guerra per fare la pace”, quello del nuovo patto di stabilità per gli equilibri futuri dello stato-mafia.
Riina, per quanto accecato dalla furia, non si sarebbe mai sognato di prendersi il rischio (che in effetti poi ha subìto perché tradito alle spalle) senza avere una garanzia più alta di quella che già la vecchia nomenclatura della sinistra DC gli aveva negato, tramite Don Vito, perché non più in grado di soddisfarla. La trattativa della “prima repubblica” è in se, da una parte, un tentativo di alcuni di salvarsi la pellaccia, e forse da un’altra il tentativo pavido di alcuni di resistere (sempre ben in sella alla poltrona comunque) alla forza eversiva che spingeva dietro le quinte per sovvertire i vecchi equilibri di potere. Sfruttando sapientemente e in alcuni casi provocando l’azione penale dei magistrati di Milano, facendo ricorso ai ricatti incrociati che sono il substrato vitale dello stato-mafia. Si pensi ad esempio alle dichiarazioni di Gelli che mettono fine alla carriera di Claudio Martelli con lo scandalo del “conto protezione”.
E’ questo che aveva capito Falcone quando preoccupato dopo la morte di Lima diceva “adesso può succedere tutto”, ed è questo che aveva capito Borsellino e forse aveva annotato nella sua agenda rossa scomparsa nel nulla.
Borsellino non era preoccupato tanto per i sotterfugi del Ros e forse per questo non si mostrò più di tanto sorpreso alla confidenza di Liliana Ferraro, Borsellino correva contro il tempo perché sapeva che avrebbe potuto interferire con il grande progetto, quello di un nuovo stato-mafia.
E come lo aveva capito? Facendo quello che Falcone aveva fatto sin dai suoi primi passi di magistrato: seguendo i soldi.
Per questo teneva sempre gli occhi fissi sul televideo a scorgere le notizie di borsa, per questo Borsellino al di fuori della sua specifica titolarità delle indagini aveva sulla scrivania i dossier su Vittorio Mangano e i fratelli Dell’Utri, per questo avevano capito che per sconfiggere davvero la mafia dovevano trovare “la gallina che faceva più uova d’oro”, dopo la morte di Lima.
Vent’anni dopo, guardiamo oggi il nostro Paese.  
Le mafie nostrane fatturano 150 miliardi di euro l’anno, stimati ovviamente al ribasso per mancanza di documenti di bilancio. E’ l’unica “azienda italiana” in grado in questo momento di crisi di disporre di una quantità inimmaginabile di denaro liquido con il quale può comprare qualsiasi cosa. L’allarme degli inquirenti impegnati su questo fronte è proprio per le aziende in difficoltà che a causa delle politiche di austerità praticate dal sistema bancario criminale si vedono spesso costrette a rivolgersi ad altri sistemi creditizi, anche a tassi di interesse non esageratamente esosi. Il giusto per riciclare e il giusto per entrare nell’economia legale dalla porta principale. Gli esperti la chiamano shadow banking (sistema bancario ombra) che ha contagiato l’economia legale per oltre il 30% ed è in crescita.
Aggiungiamo poi i dati della grande evasione fiscale e l’immenso costo della corruzione.
E’ pensabile secondo voi che il sistema economico nazionale possa dichiarare guerra al sistema economico mafioso? Tanto più in questo momento?
Io personalmente li vedo come due fratelli siamesi che hanno troppi organi in comune per poter essere separati, pena una vita molto breve…
Vorrei molto  sbagliarmi, per il grande rispetto che ho per i tantissimi imprenditori e lavoratori onesti di questo Paese, nel dire che il nostro tessuto economico si è sviluppato anche grazie al fatturato della mafie che con la concorrenza sleale e i traffici peggiori (armi, droga e ruberie varie) ha alterato l’intero equilibrio socio-economico nelle fondamenta.
Facciamo due conti alla spicciolata, giusto per limitarci agli interessi manifestamente mafiosi: il ponte di Messina, non sappiamo nemmeno se si farà e sono stati spesi miliardi di euro e nessuno di noi ha idea di dove e come; la Salerno – Reggio, ci sono voluti 50 anni per non averla nemmeno finita e sono stati spesi all’incirca 15 miliardi di euro; la Palermo-Messina 45 anni per completarla e conti decuplicati.
Ad un solo prestanome di Matteo Messina Denaro sono stati sequestrati recentemente 5 miliardi di euro, a soli altri 5 boss palermitani 10 miliardi di euro… e non sono niente rispetto all’intera ricchezza di Cosa Nostra, sommiamola a quella della ‘Ndrangheta che oggi è la più potente economicamente del mondo occidentale, grazie al monopolio del traffico della cocaina e a quella della Camorra e via dicendo…
Cosa avevano capito quindi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino?
Avevano capito il “gioco grande”, il “sistema criminale”, lo “stato-mafia”, e per questo Borsellino vomitava l’orrore che gli si parava davanti e scriveva i nomi di coloro che quell’agenda rossa l’hanno fatta sparire.
Si spiega così anche la vera ragione per cui questo processo sulla trattativa viene osteggiato, ostacolato e avverso da ogni potere, in ogni modo e con ogni mezzo lecito e illecito, oltre alle minacce di Cosa Nostra.
Solo così si spiega perché si è mosso il capo dello Stato in persona a difesa di un unico imputato. Solo così si spiega perché il Procuratore generale della Cassazione ha sollecitato il Procuratore Nazionale Antimafia, caso senza precedenti, perché cercasse un appiglio per avocare a sé l’indagine e portarla nei lidi nebbiosi di Roma. Solo così si spiega perché il Csm, le varie correnti della magistratura dalla destra di Unicost, alla sinistra di MD, all’Anm si siano schierati nella quasi totale compattezza contro i magistrati impegnati in questa inchiesta, criticandoli, esponendoli, mettendoli sotto accusa e azioni disciplinari, isolandoli.
Solo così si spiega il fronte unico dell’avversione politica, ovvio da destra, scandaloso da sinistra per quella tradizione di lotta antimafia autentica da Placido Rizzotto a Pio La Torre.
Semplicemente perché tutti, chi in colpevole malafede, chi per ignoranza o per sottovalutazione, tutti sanno che questa inchiesta può riportare l’orologio indietro di venti anni, al 1992 quando Falcone e Borsellino erano vivi e potevano impedire il progetto eversivo che ha distrutto il nostro Paese e ora attenta sempre più pericolosamente alla nostra Costituzione.
Per questo faranno di tutto per fermare questi magistrati, cercando di togliergli l’inchiesta o di scacciarli dalla magistratura, come hanno fatto con Ingroia e come vorrebbero fare con Di Matteo che deve difendersi da una accusa ipocrita e pretestuosa, quella di avere confermato a mezzo intervista una notizia già resa di dominio pubblico da uno degli organi di informazione del capo piduista che lotta per vedere realizzato il suo piano di rinascita totalitaria.
Per questo piovono minacce di morte terribilmente circostanziate su Di Matteo perché, ancora una volta, c’è la saldatura di interessi. Messina Denaro inspiegabilmente sempre libero, a disposizione per far assumere a Cosa Nostra, ancora una volta, le vesti del braccio armato dello stato-mafia, così come lo definì una volta il neo presidente del Senato Grasso al quale mi piacerebbe davvero chiedere se la pensa ancora così.
Noi coltiviamo però una speranza. Se lo Stato-Stato dei pochi e dei piccoli avrà la costanza di sostenere e di appoggiare questi magistrati, di proteggerli e di difenderli e nello stesso tempo di impegnarsi a difesa della Costituzione e dei valori fondanti cui essa si ispira, allora forse pagheremo il prezzo di una recessione economica, ma guadagneremo la verità e la possibilità di attuare la nostra Carta e diventare un Paese libero e democratico nel senso più alto del termine.
Se invece lo stato-mafia riuscirà a fermarli, e speriamo senza tragedie, allora saremmo condannati per altri decenni ad assistere come spettatori inermi all’impietoso decadimento delle nostre libertà culturali, sociali, territoriali, morali e anche economiche, sottomesse a uno stato-mafia totalitario e tiranno.
La scelta è sempre nella nostra responsabilità.

Fonte: http://www.antimafiaduemila.com/2013071043953/giorgio-bongiovanni/gemelli-siamesi.html

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