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Cornice e quadro: neoliberismo, euro e questione UE

'Il nuovo libro di Marco Bertorelli - ''Non c’è euro che tenga. Per non piegarsi alla moneta unica non serve uscirne'' - sta fuori dalle polarizzazioni.'

Cornice e quadro: neoliberismo, euro e questione UE
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26 Dicembre 2014 - 13.15


ATF

di
Paolo Bartolini
.


Appena
letta le recensione di Marco Bersani al nuovo libro di Marco
Bertorelli “Non
c’è euro che tenga. Per non piegarsi alla moneta unica non serve
uscirne
” (Alegre, 2014), mi sono diretto in libreria per
acquistare il libro. Una disamina seria e non prevenuta delle
principali tesi anti-euro è oggi indispensabile, vista la facilità
di presa sull’opinione pubblica degli slogan no-euro. La critica
alla moneta unica e agli odierni assetti dell’Unione Europea è
naturale e comprensibile. Come negare che tra cittadini europei e
istituzioni sovranazionali si sia creata una distanza abissale, un
baratro che separa i primi dalle seconde abolendo qualunque principio
di controllo e di partecipazione democratici?

Bertorello
sceglie, tuttavia, di porsi fuori dalla polarizzazione automatica (e
segretamente complice) che oppone il fronte no-euro agli strenui e
interessati difensori dell’Europa così com’è. La questione
centrale, troppo spesso evasa dai promotori di un’uscita più o
meno unilaterale dall’Unione, riguarda i limiti insiti nelle
visioni che rimangono tutte interne al modello mercatista e
ipercompetitivo del capitalismo attuale.

Semplificando
potremmo dire, sulla scia delle riflessioni di Bertorello, che il
nemico da battere non è l’Europa e la sua moneta, ma il
neoliberismo che utilizza entrambe per far fronte, senza tra l’altro
riuscirvi, alle contraddizioni del capitale in piena globalizzazione.

Occorre
dunque “sviluppare alcune valutazioni di ordine politico sui
rischi di considerare l’uscita dall’euro centrale e prioritaria
”.
Bertorello, con mia grande soddisfazione, non si ferma alle
considerazioni economiche, ma tenta di immaginare le conseguenze
sociali e, aggiungo io, antropologiche, di una fuoriuscita dall’euro.
Ripiegamenti regressivi su scala nazionale appaiono molto probabili
una volta tornati alla divisa nazionale. “

Porre
al centro la strategia della svalutazione competitiva della propria
moneta
– afferma l’autore – rischia […] di
dare adito a spinte sempre più frammentarie. Se il terreno
dell’attuale contesto ipercompetitivo sono riduzioni dei costi e
politiche monetarie fondate sulla svalutazione, allora perché non
pensare a due monete più corrispondenti a due realtà
socioeconomiche tanto diverse come il centro-nord italiano e il suo
meridione? A tale ragionamento segue, o lo anticipa, quello che a
differenti costi della vita debbano corrispondere differenti salari.
Tutto un repertorio che periodicamente non solo fa capolino nelle
riflessioni politico-accademiche, ma anche in quelle popolari, a
causa di una naturalizzazione del capitalismo che disvela rapporti di
forza che inducono a scaricare le contraddizioni verso il basso
”.

Questa
lunga citazione è utile perché dimostra la capacità dell’autore
di tener conto degli aspetti sociali e sistemici connessi
all’eventuale decisione di abbandonare l’euro. E aggiungo: la
cautela e l’attenta considerazione dei numerosi fattori che
trascendono ampiamente la questione monetaria non può trascurare gli
aspetti antropologici e psicologici.

La
carenza macroscopica della teorizzazione no-euro mi pare evidente
proprio quando, in un colpo solo, vengono dimenticate tanto la
cornice reale della cosiddetta crisi (ovvero lo stato attuale di un
capitalismo alle prese con nuove ed enormi contraddizioni mondiali)
quanto le condizioni complessive, morali-intellettuali-spirituali,
dei popoli europei. La società dello spettacolo, e il suo motore
centrato sull’accumulazione economica e sulla mercificazione
universale, hanno plasmato in profondità milioni di persone
indebolendo i nessi sociali e le forme di solidarietà orizzontali e
verticali, per non parlare delle capacità razionali e di
regolazione degli affetti.

La
recessione che sta colpendo buona parte delle nazioni europee, va
ricordato, non può che generare paura, un’emozione pervasiva e
devastante che, in mancanza di contenitori collettivi che la
convertano in fiducia e in tutele/diritti ridistribuiti, produce
immediatamente chiusura, difesa violenta della propria identità,
diffidenza verso gli altri, demonizzazione del diverso, proiezione
sui più deboli dell’ombra psicologica non riconosciuta. In altre
parole, e per non girarci troppo intorno, un ritorno alle presunte
sovranità nazionali è tutt’altro che priva di rischi, essendo
questa inversione di marcia da immaginarsi comunque tutta interna
allo scenario del capitalismo globale e della concorrenza
generalizzata che esso promuove.

Ma
altre prospettive esistono e bisogna solo coltivarle per renderle
praticabili.

Ad
esempio, cresce la possibilità che a gennaio vengano indette le
elezioni anticipate in Grecia. Syriza, che viene data vincente dai
sondaggi, nonostante le sue molte anime conserva una visione del
“problema Europa” capace di proiettare le rivendicazioni popolari
verso un futuro diverso.

Anche
Podemos in Spagna sembra rafforzare un’idea di rinascita
democratica attenta ai contatti transnazionali con altre forze di
opposizione avverse al neoliberismo e all’austerity.

Con
Bertorello, in conclusione, mi auguro anch’io che i conflitti
sociali, emersi o latenti, possano sfociare in un’alleanza
europea del lavoro
che punti a rinegoziare il debito, a riformare
i trattati europei – che, come ci ricorda Luciano Gallino, non sono
affatto immodificabili – e, soprattutto, a contrastare i patti
transatlantici del commercio liberando le comunità umane dalla
privatizzazione inarrestabile dei beni comuni.

Abbandonato
il campo delle ipersemplificazioni e degli slogan da due lire (è
proprio il caso di dirlo!) è possibile intravedere le coordinate di
un progetto radicale di cambiamento dell’Unione Europea che tenga
conto delle dinamiche profonde internazionali e di quelle,
altrettanto radicali, della psiche individuale e collettiva.

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