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Breve elogio del complottismo

Riflessioni sul libro di Paolo Sensini: Divide et impera. Strategie del caos per il XXI secolo nel Vicino e Medio Oriente, Mimesis, Milano, 2013

Breve elogio del complottismo
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22 Dicembre 2013 - 16.31


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di Alfio Neri.

Oggi è di moda l’accusa di “complottismo”. D’altra parte come
possiamo pensare che chi stia al potere non dica il vero? Visto che
viviamo nel regno della libertà e della trasparenza, come possiamo
criticare le nostre fonti informative? Come possiamo pensare che
qualcosa di essenziale non ci sia stato detto? In tempi di mobilitazione
strategica lo stesso fatto di pensare criticamente è di per sé
eversivo. Il culmine della nostra libertà personale sembra sia accettare
che i mezzi di comunicazione ci liberino dal fardello della critica.

Nel
marzo del 2010, Bashar al-Assad, il futuro tiranno siriano, fu decorato
ufficialmente da Napolitano, il nostro Presidente della Repubblica.

Per
la precisione il figlio di suo padre, che all’epoca era buono, meritava
il nostro elogio ed ebbe effettivamente la più alta decorazione del
nostro paese. L’evento fu realmente memorabile. Assad entrava
ufficialmente nel palco dei nostri migliori alleati, assieme al
beneamato colonnello Gheddafi.

Il presidente siriano venne dunque
insignito col più importante titolo onorifico italiano, quello di
“Cavaliere di Gran Croce decorato di Gran cordone al merito della
Repubblica italiana”. Il titolo sanciva l’inizio di un’alleanza talmente
“profonda” che sarebbe finita, di lì a pochi mesi, con l’accusa di
essere a capo di uno ‘Stato canaglia’.

Pochi anni prima, nel 2007,
il comandante supremo delle forze Nato in Europa dal 1997 al 2000,
generale Wesley Clark, aveva letteralmente sbigottito il suo uditorio in
un incontro pubblico a San Francisco. Rendeva di pubblico dominio un
breafing avuto poco dopo l’11 settembre 2001. Sosteneva di essere stato
messo al corrente dal vice-presidente Cheney e dal ministro della Difesa
Rumsfeld dell’intenzione dell‘amministrazione di scatenare una serie di
guerre contro Siria, Iraq, Libano, Libia, Somalia, Sudan e Iran.

L’obiettivo era trasformare il “volto” del Medio Oriente prima di essere
costretti ad accettare la sfida strategica della prossima superpotenza
emergente. Il generale Clark sosteneva che, per costoro, l’esercito
americano doveva servire per scatenare guerre e per far cadere governi e
non per rafforzare la pace e la stabilità. La sua opinione era che un
gruppo di persone avesse preso il controllo del paese con un colpo di
Stato politico. Si trattava di inventarsi nemici per destabilizzare
intere aree geografiche e dare così vita a nuovi scenari geopolitici. La
strategia americana era sostanzialmente quella di produrre caos:
seminare vento per raccogliere tempesta.

Il punto chiave non è la
menzogna in quanto tale. Altre volte nella storia l’alleato è diventato
il nemico, l’aggressore ha vestito i panni della vittima e la menzogna
ha assunto le parvenze della verità. Le bugie sono sempre esistite, ma
oggi sembrano molto più credibili che in passato. Adesso, se una
campagna informativa è svolta con un’adeguata potenza di fuoco,
qualsiasi cosa può essere creduta vera.

Da sempre ci vengono fornite
informazioni “sicure” che non possiamo verificare; però ora lo stesso
fatto di porsi in modo critico appare come un elemento di lesa maestà.
In tempi teologici l’uso critico della ragione si chiamava “eresia”;
oggi, invece, l’accusa è quella di “complottismo”. In un mondo in cui le
cose apparentemente sembrano andare bene, chi afferma il contrario può
essere solo un malato, un debole di spirito, un paranoico. Come si può
criticare la bontà e la lungimiranza dell’Impero del bene?

Il libro di Paolo Sensini, Divide et impera. Strategie del caos per il XXI secolo nel Vicino e Medio Oriente
(Mimesis, Milano 2013, pp. 322, € 24), è un rigoroso tentativo di
andare oltre la mostruosa cortina del “politicamente corretto”.
L’apparato di note del testo è assolutamente notevole e le chiavi di
lettura che il testo permette sono molto variegate.

Ciò che balza
subito agli occhi è il gigantesco lavoro di scavo fatto dall’autore fra i
documenti a disposizione. La quantità di dati circolanti è
effettivamente molto ampia nelle pubblicazioni in lingua inglese e
francese (meno in italiano). La cosa è molto interessante perché anche
all’interno del mainstream si trovano autentiche perle che
illuminano parecchi degli eventi recenti. Troviamo le dichiarazioni
pubbliche del generale Clark sulla politica estera di Bush riportate
poche righe sopra (cfr. p. 122); quelle del generale Fabio Mini, che
afferma che la politica estera statunitense nel Mediterraneo è asservita
agli interessi israeliani (cfr. p. 107); troviamo chiarimenti relativi
all’inquietante rapporto fra sunniti e wahhabiti – per inciso, senza il
petrolio e l’aiuto statunitense, i wahhabiti sarebbero solo una setta
semiereticale di beduini analfabeti che si è impadronita con la forza
della Mecca (cfr. pp. 266-273); e troviamo anche molte ragioni del
perché una parte dei siriani stia ancora sostenendo, malgrado tutto,
Assad.

Fra tutti i documenti risalta di gran lunga la
dichiarazione, sicuramente fatta a braccio, di Karl Rove, l’anima nera
dell’entourage di Bush che, in un attimo di vera autenticità
esistenziale, dice chiaramente: “Ora noi siamo un Impero e quando agiamo
creiamo la nostra realtà. E mentre voi state giudiziosamente
analizzando quella realtà, noi agiremo di nuovo e ne creeremo un’altra e
poi un’altra ancora che voi potrete studiare. È così che andranno le
cose. Noi facciamo la storia e a voi, a tutti voi, non resterà altro da
fare che studiare ciò che facciamo” (p. 163). I vertici americani sanno
dunque di “scrivere la storia” e non si curano affatto della verità,
della giustizia e anche degli eventuali danni collaterali.

Sull’argomento
vi sono un’infinità di problemi aperti: dalla quantità enorme di
stranezze dell’11 settembre 2001, all’influenza della lobby israeliana
nelle politiche mediorientali degli Stati Uniti. La cosa interessante è
che esiste, e Sensini se ne da conto, un’ampia documentazione. In tale
contesto, più che l’informazione puntuale, manca la capacità di
formulare i quesiti giusti e di seguire le piste più interessanti.

Per
esempio, perché nessuno si chiede come sia possibile che l’Arabia
Saudita, un paese che non permette il voto e la guida alle donne, sia
riuscito a diventare, assieme a Israele, nazione che pratica
l’apartheid, il difensore della democrazia e dei diritti umani nel mondo
arabo?

Come è stato possibile che le petromonarchie più integraliste,
come gli Stati sunniti del Golfo Persico, abbiano come peggior nemico
l’Iran, un altro petrostato integralista mussulmano, e non Israele, il
loro declamato nemico assoluto?

I petrostati sciiti e sunniti non
dovrebbero essere, come da teologia islamica, alleati per respingere
l’influenza di americani e israeliani?

Perché a sua volta Israele,
apparentemente uno Stato moderno, l’“unica democrazia del Medio
Oriente”, è alleato di queste monarchie medievali?

E ancora: perché
Assad, che certamente non è un santo, ha sempre avuto dalla sua una
parte della popolazione siriana?

Perché in tanti anni non è stata
raggiunta nell’area neppure una limitata forma di quieto vivere?

Che
senso storico ha il tentativo, iniziato un decennio fa dal precedente
presidente degli Stati Uniti, di cambiare il volto del Medio Oriente?

Le
tesi del libro sono molte e non vorrei togliere al lettore il piacere
della lettura. Tuttavia, fra tutti i capitoli, segnalo il gustoso I “precedenti storici dell’11 settembre” nella politica estera statunitense.
Si tratta di un capitolo delizioso per brevità e concisione.

In queste
pagine l’autore mostra alcune costellazioni di eventi che hanno spinto
più volte gli Stati Uniti ad agire per “autodifesa”. La trama elementare
è quella di un “nemico traditore” che agisce nell’ombra per pugnalare
alle spalle l’ingenuo ma coraggioso campione della democrazia; un
canovaccio che si ripropone più volte nella storia americana con poche e
lievi varianti.

La prima guerra provocata da un nemico traditore, fu
quella contro la Spagna del 1898. Essa venne dichiarata dopo
l’esplosione dell’USS Maine, una nave da guerra alla fonda nel
porto dell’Avana. La colpa dell’esplosione fu attribuita d’ufficio agli
spagnoli, venne impedita ogni perizia sulle cause del disastro; poco
dopo il Maine fu affondato in alto mare, appena in tempo per
iniziare una guerra che la Spagna non aveva alcun interesse a fare (cfr.
pp. 201-204).

Un altro caso molto noto fu quello del Lusitania,
un transatlantico civile britannico pieno di materiale bellico (fra
l’altro esplosivi ad alto potenziale che esplodono a contatto con
l’acqua), che viaggiava a pieno carico di passeggeri in zone dove si
sapeva battevano sommergibili tedeschi (cfr. pp. 204-211).

Pearl Harbour
è un altro esempio paradigmatico. Nel dicembre 1941, la marina
americana venne attaccata apparentemente di sorpresa dalla flotta
giapponese nelle Hawaii. All’epoca i servizi segreti statunitensi
avevano decrittato il cifrario segreto giapponese e seppero con anticipo
dell’imminente attacco. Il Presidente Roosevelt aveva bisogno di una
scusa per entrare in guerra senza problemi. Alla fine della giornata gli
unici veramente sorpresi dal bombardamento furono i marinai americani
usati come carne da macello (cfr. pp. 211-218).

Anche gli incidenti del
Golfo del Tonchino dell’agosto 1964, quelli che provocarono l’intervento
in forze degli Stati Uniti in Vietnam, erano una bugia. La vicenda finì
talmente male, con l’inglorioso ritiro americano di dieci anni dopo,
che gli stessi diretti responsabili politici statunitensi furono
costretti ad ammettere pubblicamente la loro colossale frode (cfr. pp.
218-220).

Per brevità tralascio tutta la propaganda che diede inizio
alla prima e seconda guerra irachena, come la penosa vicenda delle
fotografie dei cormorani incatramati, o la serie di false dichiarazioni
fatte al Congresso da testimoni compiacenti istruiti per l’occasione dai
servizi segreti statunitensi.

Quello che a me interessa è fare notare che gli Stati Uniti sono un paese come gli altri. Il Destino Manifesto
non impedisce a questo paese di fare tutte quelle brutte figure che
sono così consuete nei paesi in cui abitano i comuni mortali. Certo loro
producono telegiornali per tutto il mondo e questo migliora la loro
immagine. Per esempio nei pacchetti informativi è implicito chi sia il
buono e chi sia il cattivo, così com’è ovvio che loro, che sono buoni,
stiano aiutando i buoni. Vorrei solo far notare che anch’io, pur avendo
ritenuto certa l’esistenza di Babbo Natale, dopo qualche anno ho smesso
di crederci.

Fonte:  http://www.carmillaonline.com/2013/12/21/breve-elogio-del-complottismo/.

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